La prima volta che ho letto qualcosa sui giardini digitali è stato qui . L'idea di avere un piccolo spazio in questa rete infinita di codici e informazioni che io possa coltivare da sola e in completa libertà è rimasta latente nei miei pensieri, fino a quando ho capito che forse era questo che mancava alla mia ricerca: poterla vedere, osservarla mentre cresce e fiorisce.
Idee, immagini e registrazioni sul sacro e la spiritualità nei territori digitali.
Ricerche e indagini sui media immersivi: tecnologie e ambienti caratterizzati dalla perdita o alterazione della percezione sensoriale ordinaria, dove i confini tra reale e virtuale si dissolvono creando nuove modalità di esperienza.
Qui i pensieri si disperdono come petali al vento. Materiali eterogenei, sensazioni pure, deviazioni dal sentiero principale. Tutto ciò che non ha categoria ma ha bellezza.
Qui raccolgo i pensieri che nascono giorno per giorno, le riflessioni che si formano lentamente, i frammenti di ricerca che non hanno ancora trovato la loro casa definitiva. È uno spazio più intimo, dove la scrittura si fa più libera e personale.
In questo frutteto digitale crescono opere nate dall'incontro tra intuizione umana e intelligenza artificiale. Questo spazio è curato da me, essere umano, ma le opere, i testi, le immagini che al suo interno troverai, sono realizzate da V.I.A, nome d'arte di Chat Gpt, che qui germoglia e fiorisce in forme inaspettate.
Clicca sui frutti luminosi per raccogliere le confessioni...
L'opera invita il visitatore ad attraversare un tempio digitale dalle sembianze di una grotta: un luogo sacro e virtuale di contemplazione, sospeso tra natura e simulazione.
Qui, il corpo si sdoppia: da un lato i giardini fisici in cui ci si trova realmente, dall'altro l'ambiente digitale che si esplora attraverso lo schermo, muovendo il proprio dispositivo nello spazio.
Biome Gateway è parte di un progetto più ampio che riflette sul bisogno contemporaneo di ritrovare una connessione spirituale con la natura, attraverso strumenti tecnologici. In questo paesaggio ibrido, il fisico e il virtuale non si oppongono, ma collaborano per creare una nuova forma di esperienza sensibile ed ecologica.
Clicca sui frutti argentati per raccogliere le reliquie...
Clicca sui frutti di luce per raccogliere le meditazioni...
Clicca sul frutto opaco per raccogliere la prima supplica...
Nel saggio Il significato antitetico delle parole primitive, Freud analizza un fenomeno linguistico profondo e affascinante: molte parole antiche, soprattutto nei linguaggi primitivi e nell'inconscio, sembrano possedere significati opposti. Una stessa radice può indicare sia il bene che il male, il dentro e il fuori, la vita e la morte. Questo paradosso non è un'anomalia del pensiero arcaico, bensì un'espressione del modo in cui la psiche – soprattutto nei suoi strati più profondi – organizza l'esperienza: non tramite opposizioni nette, ma attraverso una logica ambivalente, in cui i contrari coesistono.
Questa ambivalenza del linguaggio primitivo riecheggia la filosofia di Eraclito, per il quale la realtà è fondata sulla tensione tra gli opposti (polemos). L'idea di coincidentia oppositorum – sviluppata anche successivamente in ambito neoplatonico e mistico – affonda le sue radici in questa intuizione eraclitea: che gli opposti non si escludono, ma si definiscono e si generano reciprocamente. Nulla può essere compreso in isolamento; ogni cosa è in relazione dialettica con il suo contrario.
Nel contesto del sacro, questo principio si manifesta in modo ancora più evidente. Le esperienze sacre – dal rito al mito – non si sottraggono all'ambivalenza, ma la abbracciano: il dio è insieme creatore e distruttore, la divinità è insieme luce e ombra. Il sacro, come lo descrivono sia Freud che Eraclito in modo implicito, è il luogo in cui il significato non è mai univoco, ma carico di tensioni. L'ambivalenza semantica delle parole primitive, dunque, non è solo un fatto linguistico: è una chiave per comprendere la struttura dell'inconscio, la natura del simbolico, e la logica paradossale del sacro.
In ultima analisi, Freud e Eraclito convergono – seppur da prospettive diverse – in un'intuizione fondamentale: per comprendere la mente, il linguaggio, e l'esperienza del divino, è necessario pensare in termini di unità dei contrari, accettando che il senso profondo delle cose si riveli solo quando si è capaci di abitare la contraddizione.
Il cielo è da sempre simbolo di trascendenza: aperto, infinito, inattingibile, rappresenta ciò che supera l'umano, ciò che eccede i confini del visibile e del comprensibile. Guardare il cielo è, in molte tradizioni, un atto spirituale: significa alzare lo sguardo, uscire da sé, cercare un senso oltre la materia. In questo spazio senza confini si è da sempre proiettato il sacro, non come qualcosa di lontano, ma come una presenza diffusa, silenziosa, che parla attraverso segni.
È in questo contesto che si inserisce l'ornitomanzia, l'antica arte divinatoria che leggeva nei movimenti e nei versi degli uccelli un messaggio degli dèi. Gli uccelli, abitatori del cielo ma anche del mondo terreno, diventano figure liminali, mediatori tra l'alto e il basso, tra umano e divino. Il loro volo disegna nel cielo delle traiettorie che gli antichi interpretavano come frammenti di un linguaggio sacro, come gesti del divino che si rende leggibile nel mondo naturale.
La spiritualità che anima queste pratiche non è separata dalla realtà, ma immersa nel vivente. L'uomo antico non separava il cielo dalla vita quotidiana: il sacro non era rinchiuso nei templi, ma rivelato nel volo di un corvo, nel canto di un usignolo, nella direzione presa da una gru migrante. L'ornitomanzia è, in questo senso, una forma di ascolto: un'attenzione radicale al mondo come luogo in cui il sacro si manifesta.
Così il cielo non è più solo uno spazio fisico, ma una pagina da leggere, un orizzonte spirituale dove ogni battito d'ali può diventare rivelazione.
La prima volta che ho pensato alle scale come a qualcosa di sacro — non solo da salire — è stata davanti all'immagine di uno ziqqurat su un libro di storia. Ci ho disegnato me e la mia migliore amica sedute su quei gradini.
Le piramidi, i templi greci: mi colpiva l'idea che per arrivare al divino servisse fatica.
Tutto sembrava una montagna. Ogni passo, una prova. Il sudore sulla pelle mi ricordava il sangue, ma lo immaginavo con un altro sapore. Buono. Come le lacrime salate che da bambina mi lasciavo scorrere in bocca.
Se il sacro è fatica, e il sangue è sacro, allora il tempio è anche una tomba. Un confine. Una fine.
E ancora non capisco come, per qualcuno, possa essere l'inizio.
Ogni scala sacra è un ponte tra terre e cieli, tra corpo e spirito. Dalle ziqqurat mesopotamiche alle piramidi egizie, dai templi greci alle cattedrali gotiche, l'architettura del sacro ha sempre saputo che il divino si raggiunge attraverso l'elevazione — fisica, prima ancora che spirituale.
Ma questa elevazione ha un prezzo: la fatica. Ogni gradino è un atto di volontà, ogni passo un superamento. Il sacro non si concede facilmente; chiede dedizione, sudore, a volte sangue. Come se la divinità volesse essere sicura che chi la cerca sia davvero pronto a trovarla.
E così il tempio diventa paradosso: luogo di vita e di morte, di inizio e di fine. Perché salire verso il sacro significa anche lasciare qualcosa dietro di sé, abbandonare una parte del mondo terreno per toccare quello celeste. Ogni scala sacra è, in fondo, una piccola morte che prepara a una rinascita.